Prima parte

In un primo periodo, P. si è occupato delle tematiche inerenti la questione sociale, a partire dal pensiero socialista di Sorel e Proudhon, ricercando le fasi originarie del contrasto di classe, nel passaggio dall’antico e al nuovo regime, quando cioè al primato della politica si viene sostituendo quello dell’economia. Di questo contrasto, P. ha esaminati entrambi gli aspetti individuando significative interazioni. Da qui la sua ricerca sulla possibile connessione – malgrado le immediate enfatizzazioni ideologiche – fra: da un lato questa prima concezione sindacalista (germinata nel socialismo ‘latino’, franco-‘napoletano’, in contrapposizione al marxismo tedesco) e componenti di un tradizionalismo nato al volgere del XVIII-XIX secolo come reazione al radicalismo rivoluzionario, razionalista e materialista. Sin da qui P. definisce la distinzione l’adesione alla tradizione ed il tradizionalismo conservatore, immobile, chiuso al divenire, ad ogni selezione meritocratico-capacitaria di forze nuove emergenti. Il tradizionalismo di cui P. propone la rivalutazione è quello non insensibile alle ragioni del divenire, della continuità e dell’osmosi intercettale, purché meritocratico-capacitaria.

Come interfaccia speculare a questa ipotesi di localizzazione di un tradizionalismo ancor valido e necessario per la ricostruzione dell’ordine etico e politico, c’è nella ricerca di P. correlativamente l’ipotesi che sia localizzabile – dietro le polarità ideologiche della storiografia orientata in senso ‘socialistico’ – un’idea di rivoluzione eticamente e storicamente legittimata.

In tal senso, P. ha indagato se ed in qual misura sia individuabile un’idea di rivoluzione diversa dagli esiti radicali di un rivoluzionarismo che si è rivelato, fra XVIII-XX secolo, incapace, indisponibile, in quanto avverso, a riannodare le fila della tradizione politica di una concezione complessa della società.

Nozione, quest’ultima, relativa ad una tradizione di ‘costituzione mista’ o ‘governo misto’ (capace cioè di legare in un tutto armonico, gerarchicamente ordinato) i caratteri della monarchia (unità del comando), dell’aristocrazia (selezione dei migliori) e della democrazia (partecipazione alla selezione capacitaria).

Tradizione risalente ad Aristotele, passata a Polibio, da qui a Cicerone e, dopo un salto di secoli, riapparsa con la Politeia di Aristotele nella teoria di San Tommaso d’Aquino e da qui ispiratrice delle realizzazioni su tale prospettiva compiute nell’Inghilterra della Glorious revolution alla svolta fra XVII-XVIII e quindi nella rivoluzione americana.

Una risultante di queste ricerche è quindi stata la localizzazione di una rivoluzione che nasce legittimamente dalle chiusure cetuali, ossia dalla riduzione alla volontà monocratica del monarca, imposte contro la complessità cetuale-funzionale dell’antica ‘società di corpi’, costituita da classi aperte al merito e gerarchicamente ordinate. Una riduzione monarchico-assolutista operata artatamente da quella che un tradizionalista cattolico come il visconte de Bonald indicava come la prima vera facies diabolica della Rivoluzione, ossia la sua immediata antenata, appunto la ‘rivoluzione assolutistica’ che caratterizza particolarmente la monarchia dell’Europa continentale fra XVI-XVII secolo.

Da questi primi studi, P. trae il convincimento dell’esistenza di una componente rivoluzionaria non insensibile alle ragioni della continuità e che pertanto può svolgere un ruolo inconsapevolmente complementare nel complesso processo storico che vede, sull’altro versante, i difensori delle tradizioni liberali-rappresentative.

Una rivoluzione quindi che sia pure i pochissimi suoi teorici (appunto in insospettata analogia con le posizioni di altrettanto pochi veri tradizionalisti) intravedono come unica alternativa possibile ai pericoli mortali (esiziali per la sostanza della politica) da un lato orditi dal razionalismo materialista del radicalismo rivoluzionario, dall’altro elucubrati dalla fuga dalla realtà ‘terrena’ dall’integralismo tradizionalistico, quello dei fautori di formalismi morali (estranei, avversi alla sostanziale eticità) e di chiusure di casta.

A fronte di questa nozione di rivoluzione come positivamente argomentata, c’è appunto l’idea di una tradizione diversa dal conservatorismo e dal tradizionalismo come dal radicalismo rivoluzionario. Una tradizione che scorge nel profondo del radicalismo ideologico l’estrema risultante di un processo di livellamento delle specifiche distinzioni cetuali (delle differenze capacitario-meritocratiche dei singoli, delle loro libertà e della loro individualità politicamente argomentate) iniziatosi proprio nella centralizzazione assolutistica della monarchia, preliminari al livellamento egalitario delle democrazie fra XVIII-XIX secolo, prefigurazione degli approdi statolatrici del secolo XX.

Seconda parte

Nei suoi studi P. ha quindi considerato sempre analiticamente le formulazioni dottrinarie sia dell’uno che dell’altro versante. Iniziando dagli autori di ambito “tradizionalista”, cioè dallo studio delle opere di Joseph de Maistre, Louis de Bonald ed Edmund Burke, la sua ricerca ha individuato l’irriducibilità di queste teorie ad un comune denominatore particolarmente di Bonald e Burke rispetto a Maistre. Seguendo le intuizioni di Carlo Curcio, a sua volta P. ha intravisto appunto lungo questa linea di studi una nozione di tradizione del tutto compatibile con una nozione machiavelliana di ‘rivoluzione verso i primi princìpi’. Una rivoluzione che quindi poteva risultare il presupposto sia della continuità che del progresso delle libertà e delle istituzioni, da ricostituire comunque dopo ogni cesura radicale.

Avendo individuato nei suoi studi i tratti essenziali di una tradizione basata su princìpi etico-politici aggreganti le diversità (in un insieme di valori classico-cristiani, aperti all’incontro con altre culture, religiose e laiche,  nel riconoscimento delle reciproche e complementari individualità), in ricerche successive P. ha approfondito l’indagine sui testi, scoprendovi il fondamento di uno sviluppo politico-istituzionale che si perfeziona fra medioevo ed età moderna nelle istituzioni rappresentative, nelle ‘società di stati’ (società di ceti, società di corpi), ossia nelle società rette da sistemi parlamentari (rappresentativi della complessità cetuale-funzionale della società civile). In questo, P. non ha trascurato comunque la lezione di Carlo Curcio (anche in questo antesignano rispetto al ‘pensiero tedesco’) sui ‘casi di estrema necessità’ che si vengono producendo sotto forma di cesure radicali i cui effetti si protraggono nel tempo, e sui modi e tempi per affrontarli per cercare di ricostituire questa continuità.

Terza parte

Distinto dunque il tradizionalismo dalla tradizione, superati gli integralismi di reazione al radicalismo della rivoluzione francese, P. ha cercato nei suoi studi, di evidenziare il diverso referente alla sostanza e non solo alla forma della tradizione in autori sia del versante continentale (Bonald, Lamennais, Ballanche, e quindi Ventura, Gioberti e Rosmini), che di quello anglo-sassone (Locke, Hume, Burke, e gli stessi autori americani fra rivoluzione del 1776 e gli scritti apparsi su “The Federalist”). Ne è risultata una visione della politica sostanzialmente contrapposta ad ogni radicalismo culturale, politico, economico, e particolarmente opposta nei suoi presupposti istituzionali al costituzionalismo rivoluzionario francese. Una concezione, quindi, non distante dal riconoscimento di un “momento machiavelliano” (nel senso degli studi di Pocock), quale elemento di unione nella ricerca di istituzioni di libertà e di ordine che – sia pure in certa misura ed a certe condizioni – accomuna le due sponde della cultura occidentale nel vecchio e nel nuovo continente.

Quarta parte

In questo progetto di ricerca le specificità di referenti ai diversi modelli istituzionali sono emerse in tre diversi momenti. Di questi, una parte è già definita nelle pubblicazioni che figurano qui infra, nel relativo elenco. Ma un’altra parte è rimasta oggetto di continue analisi, di riflessione e di definizione.

Il primo di questi momenti ha riguardato dunque, la progettualità costituzionale nel Meridione d’Italia, con specifico riferimento alla sequenza di avvenimenti che vanno dalla rivoluzione del 1799 alla tragica, prima restaurazione borbonica (1799-1806), quindi al Decennio (1806-1815: sia quello napoletano, dei due ‘napoleonidi’, Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat, che quello dei Borbone fuggiti a Palermo). Il culmine di questa lunga crisi che coinvolge i destini non solo del Meridione ma dell’intera Italia è la seconda restaurazione borbonica a Napoli (fra il 1815-1820). Una restaurazione importante più della prima, in quanto dominata dal modello della monarchia amministrativa napoleonica, da parte di ministri come Luigi Medici e Donato Tommasi. Il loro disegno cautamente progressista e fondamentalmente burocratico non può però ripeter il modello napoleonico poiché non vi è nei criteri dei due ministri e del sovrano niente del carisma del ‘Fulmine di guerra’, né del suo talento politico, quanto meno capace di ricucire le più gravi ferite prodotte dalla rivoluzione nella gerarchia sociale e nei rapporti fra potere, Chiesa e società civile.

Da qui la quasi inevitabilità della rivoluzione costituzionale del 1820-1821, nella quale le ricerche di P. riconoscono un punto di non ritorno per una progettualità complessa, almeno inizialmente, tanto da suscitare le adesioni dello stesso alto clero meridionale. Ma una ‘costituzionalizzazione’ che gradualmente si radicalizza, perdendo alcuni dei migliori connotati iniziali. Ne consegue l’intervento reazionario dell’Austria, dal quale il ‘regime costituzionale’ finisce per essere spietatamente represso dal retrivo reazionarismo ispirato alla politica asburgica ed agli egoismi nazionalistici delle Potenze europee, dimentiche di quegli ideali di libertà messi in campo contro le idee francesi ed il bonapartismo.

Esito di queste ricerche di P., protratte per più di un decennio, con contributi di altri studiosi, ed ormai giunta alle dimensioni di due grossi volumi, è la pubblicazione di un’opera intitolata: Alla ricerca di un’ordine nuovo

Momento intermedio di queste ricerche di P. ha riguardato la complessa fisionomia dello stesso schieramento ideologico dei protagonisti della repubblica napoletana. Da qui la pubblicazione di un lungo saggio negli Annali dell’Università cattolica di Milano. Risultanze per i cui titoli si rinvia all’elenco delle pubblicazioni.

Qui il punto di partenza dell’indagine è stata la critica che Vincenzo Cuoco rivolse al progetto di costituzione di Mario Pagano, in una presa di distanza sia dal Filangieri che dal Russo, sia dai costituenti francesi. Tale critica ha nel Cuoco un sicuro referente (per quanto dissimulato per ragioni di militanza sul fronte ideologico francese) nel costituzionalismo britannico, quello di Blackstone, Burke e dello stesso J.L. de L’Holme.

Il terzo ambito di indagine di P. contro i preconcetti della storiografia ideologicamente orientata (nel senso ‘laico’, scettico, sedicente razionalista, di una sinistra autoreferente che domina le università e la cultura mediatica) è stato poi quello relativo alla complessa fisionomia del periodo noto come triennio giacobino (1796-1799). Qui la ricerca si è sviluppata basandosi sul fatto che nel ‘triennio’ non sono più protagoniste né le idee rivoluzionarie francesi (in quanto una diversa ideologia, un diverso modello di società e di interessi stanno ormai prefigurando le ragioni dell’accettazione del disegno politico napoleonico, dapprima consolare, poi subito imperiale napoleonico), né le posizioni strettamente reazionarie.

I veri protagonisti di questa transizione italiana verso l’epoca contemporanea risultano ceti ed ambienti che – da un lato – subiscono, e quindi accettano solo formalmente, i contenuti politico-programmatici del ‘nuovo regime’ imposto dalle baionette francesi e dai ‘democratici italiani (categoria in bilico fra la sincerità di sentimenti democratici e la mera funzione ausiliaria, collaborazionista, in vista di immediati e facili vantaggi). D’altra parte, questi stessi ceti ed ambienti seguono i Francesi, e soprattutto Bonaparte nel suo disegno di una ‘république un peu aristocratique’ (società di corpi, fondata su distinzioni capacitario-meritocratiche, dunque non egalitario-democratica: res publica e non demo-crazia, potere formalmente attribuito al popolo, ma sostanzialmente preda volta a volta di inegalitarie oligarchie, anche se ora ‘borghesi’ e non aristocratiche)

Infatti, quel che qui risulta significativo è il complesso intreccio che in questo triennio si palesa fra le istanze di rinnovamento interne alle singole società di antico regime degli Stati regionali italiani.

Intreccio vitale di istanze appunto non riducibili né all’accettazione dell’autoritarismo democratico-rivoluzionario, né al dispotismo monarchico degli antichi sovrani. Istanze che sono espressione di ceti che ricercano una ‘via media’ della libertà politica, in termini di rappresentanza parlamentare e di indipendenza nazionale. Istanze che in qualche misura accomunano diversi ambienti e ceti in una stessa speranza e – nell’immediato – in una medesima cocente delusione.

La stessa Curia romana risulta divisa dai diversi atteggiamenti verso la metamorfosi della rivoluzione nella monarchia napoleonica. Un filone dell’indagine di P. ha messo in luce come il clero (se non immediatamente giansenista, certo comunque giurisdizionalista) nel Meridione abbia aderito alla repubblica nel 1799, ed i cui superstiti poi partecipano sia al governo di Giuseppe Bonaparte e di Murat, sia al napoletano Novimestre costituzionale (del luglio 1820-marzo 1821). Un altro aspetto messo in luce da P. è quello di parte del clero romano, che giura fedeltà alla Repubblica nel 1798, e non senza motivo viene criticato da altri esponenti del clero, sia pure per niente convinti dell’opportunità di partecipare alla pesante alleanza che allora si prefigura fra trono ed altare.

Interessanti riscontri di P. sono emersi (in Frammenti di un altro 1799…) ad esempio dal confronto fra figure come l’ex-gesuita Bolgeni, rispetto al sacerdote empolese Giovanni Marchetti, valido pubblicista e non solo polemico nella difesa degli ideali cristiani, che progressivamente riconnetterà ad una prospettiva cattolico-liberale, non a caso oggetto delle riflessioni dello stesso Ventura (nella pur breve parentesi delle aperture innovative e rappresentative del pontificato di Leone XII, nel 1826, ma prima di una sua pretesa svolta democratica  del 1847 – argomentata molto superficialmente dalla storiografia – a seguito del secondo Lamennais).

Nello sviluppo di questa linea di ricerca si era del resto già focalizzata in P. l’attenzione su uno dei protagonisti di questa vicenda del clero e del notabilato meridionale, il cui esito era stato il saggio intitolato: Gioacchino Ventura di Raulica e la costituzione napoletana del 1820. Presentazione di Mario D’Addio. Lecce, Milella, 1997[“Dipartimento di Filosofia dell’Università di Lecce”].

Lungo un’altra linea, la medesima attenzione alla contestualità fra etica, religione e politica ha condotto P. sia alla partecipazione al volume collettaneo: La festa di San Giovanni nella storia di Firenze. Rito, istituzione e spettacolo. Bicentenario della fondazione della Società di san Giovanni Battista (1796-1996). A cura [e con un saggio introduttivo: Le feste patronali fra mito delle origini, sviluppo storico e adattamenti ludico-spettacolari, pp. 11- 54] di P. Pastori. Firenze, Polistampa, 1997; sia al testo di G. SAVONAROLA, Tractato circa il reggimento et governo della città di Firenze, Lecce, Conte, 1998. [Introduzione ed edizione critica di Paolo Pastori, della ristampa anastatica dell’edizione dell’incunabulo di Firenze, 1498].